CANTI DELL' EMIGRAZIONE BERGAMASCA
di Piergiorgio Mazzocchi - Tratto dalla
rivista Terra Insubre - Lughnasa 2003
Il fenomeno
dell’emigrazione è sempre stato presente in molte aree della Padania
fin dal medioevo, in modo particolare nelle zone alpine e sub alpine.
Dall’emigrazione più antica che raggiungeva i porti di Venezia e
Genova, dove corporazioni di scaricatori gestivano dei moli: il molo più
importante di Genova era concesso in esclusiva ai bergamaschi, ed ancora
all’inizio del XX secolo molte donne del popolino genovese venivano a
Bergamo a partorire per poter garantire l’accesso ai lavori di scarico,
ed avere quindi in futuro un posto di lavoro garantito per i loro figli.
Il porto di Livorno nel ‘500 era gestito esclusivamente dagli abitanti
del comune di Urgnano (Bergamo), e soltanto dopo cento anni venne concesso loro
il diritto al ricongiungimento familiare, per questo c’erano delle pause
per il rientro e dar modo di formarsi una famiglia. Altri ancora
emigravano, invogliati da sgravi fiscali dei regnanti locali, per lavorare
il ferro e produrre attrezzi e armi nelle zone minerarie: è accertata da
secoli la presenza dei bergamaschi nelle valli di Lanzo, in Austria, o dei
bresciani e bergamaschi in Lunigiana, anche se queste furono migrazioni
senza ritorno più che emigrazioni e di questi periodi, ormai troppo
lontani, non abbiamo canti che trattano l’argomento vero e proprio, ma
abbiamo molte canzoni che richiamano spessissimo il mare, la barca,
l’affondamento, cose totalmente estranee ad una cultura alpina e che
probabilmente si rifanno ai periodi trascorsi in laguna o in zone
marittime. In altre canzoni e ballate molto antiche ci sono riferimenti
all’Inghilterra , ma soprattutto alla Francia ed, è piuttosto difficile
dire se si tratti di testi che si possano riportare ad un fenomeno
migratorio o dovuto più a scambi di tipo commerciale o culturale.
Addio
Ninetta
La barca l’è pronta
Il sole tramonta
Il sole tramonta
Addio Ninetta
La barca l’è pronta
Il sole tramonta
Dobbiamo partir
Dobbiamo partire
Per mare e per terra
Arrivederci o’ bella
Sö la riva del mar
Arrivederci o’ bella
Sö la riva del mar
Il canto
d’emigrazione vero e proprio rimasto ancora vivo è quello dei secoli
XIX, XX, più vicini a noi come periodo storico e durante i quali il
fenomeno emigratorio assume proporzioni più vaste e diverse da quelle dei
secoli precedenti. Alla fine del ‘700 cominciano le prime compagnie di
carbonai e taglialegna che stagionalmente si recano in Francia. Questo
fenomeno continua ancora oggi anche se in maniera diversa e in proporzioni
diverse, tuttavia ci sono ancora taglialegna stagionali, attivi in Francia
e in Svizzera. Nell’800, soprattutto dopo il 1870, con l’aumento di
popolazione, le annate agricole scarsissime e l’infausto fenomeno
dell’unità nazionale, che fece sprofondare le piccole economie locali,
con l’eccessiva tassazione e l’esproprio dei beni comunali utilizzati
per il sociale e quindi a favore dei meno abbienti e degli indigenti,
comincia per tutta la penisola il fenomeno dell’emigrazione verso le
Americhe:
Mamma mia dammi cento
lire che in America voglio andar,
cento lire io te le do , ma in America non vai no
suoi fratelli alla finestra , mamma mia lassela ‘ndà
suoi fratelli alla
finestra,mamma mia lasséla
Vatten pure
o figlia ingrata, qualche cosa ti succederà
Vatten pure o figlia
ingrata, qualche cosa ti succederà
Quand fu stato in mezzo al mare, bastimento si sprofondò
Quand fu stato in
mezzo al mare , bastimento si sprofondò
Le parole della mia
mamma, son venute alla verità
Le parole della mia
mamma, son venute alla verità
Le parole dei miei
fratelli son sta quelle che m’ha ingannà
Le parole dei miei
fratelli son sta quelle che m’ha ingannà
Questa canzone è
presente in tutto il nord ed è entrata di fatto nel repertorio
tradizionale più puro.
Quella che
segue, può esser definita “l’inno dell’emigrante” per eccellenza.
Si tratta di canzoni sicuramente composte da autori, spesso, coinvolti
dalla propaganda politica del tempo,e a volte contrapposte a quelle dei
“cantautori “ del tempo, i cantastorie, che basavano un testo sulla
drammaticità di un evento, per far colpo sul pubblico e invogliarlo a
comprare i fogli volanti che ponevano in vendita nei mercati e nelle
fiere.
Noi siam
partiti dai nostri paesi
Noi siam partiti con grande onore
Trenta giorni di macchina e
vapore
Fino in America noi siamo arrivà
Fino in America noi
siamo arrivati
Abbiam trovato né paglia né fieno
Abbiam dormito sul duro terreno
Come le bestie abbiam riposà
E l’America l’è
larga e l’è longa
L’è circondata di acqua e di sabbia
E con l’industria dei nostri italiani
Abbiam fondato paesi e città
Evviva evviva
Cristoforo Colombo
Che ha scoperto tre parti del mondo
Che ha scoperto tre parti del mondo
Per dar lavoro ai nostri italià
In questo canto
esplode la disperazione la rabbia del dover partire, l’orgoglio di
appartenenza e di identità, la durezza della nuova situazione e alla fine
la soddisfazione dell’aver superato tutte queste difficoltà e aver dato
al mondo un contributo per essere migliore. Si evidenzia comunque la
propaganda che si insinua a creare una nuova identità italiana tutta da
creare, mentre la prossima fa parte del repertorio dei “fogli
volanti”.
Non sempre i viaggi avevano un esito positivo, accaddero anche dei
naufragi, come quello del “Sirio”, il 4 agosto del 1904, che lasciarono
negli emigranti un profondo ricordo.
E da Genova il Sirio
partivano
Per l’America varcare varcare il
confin
Ed a bordo cantar si
sentivano
Tutti allegri del suo, del suo destin
Urtò il Sirio un orribile scoglio
Di tanta gente la mise- la misera fin
Padri e madri
bracciava i suoi figli
Che si sparivano fra le onde del mar
Più di centocinquanta annegati
Che trovare nessuno, nessuno potrà
E fra loro un vescovo c’era
Dando a tutti la sua bene- la sua benedition
Ad una certa propaganda per favorire il fenomeno migratorio in America,
molto spesso arriva la risposta della controparte, infatti ci si imbatte
in stornelli composti a proposito, come questo ad esempio, apparentemente
di origine popolare, ma invece d’ autore. Si tratta di un brano
presentato al concorso per la” Canzone Lombarda” nel 1892 autori
Tarenghi, A.Ferrari Paris, e riproposto da Luciano Ravasio.
‘Ndé piö in America
‘Ndé piö ferméss a cà
sé v’preme la salüte
se v’preme la salüte
‘Ndé piö in America
‘Ndé piö ferméss a cà
se v’preme la salüte
e anche la libertà
S’ pöl ciamà
l’America
Mercat chè i vend i bianch
I sfrötadur, la piovra
Chat süga töt ol sanch
Si ripete la prima
strofa
Difficile stabilire invece l’origine della prossima, raccolta in parte
nel 1973 da B. Foppolo a Serina, mentre le prime due strofe sono già
riportate , senza musica, dal Tiraboschi nel 1878:
Vegnì, vegnì tusane
Vegnì, vegnì, con mé
Che m’indarà in
America
Che m’indarà in America
Vegnì, vegnì, tusane
Vegnì, vegnì con mé
Che m’indarà in
America
A ciapà sich franch al dé
Si vegneria in America
Se la föss come Milà
Ma perché l’è
l’America
L’è tropo dè lontà
Andèm indèm morosa
Andem insèm con mé
Che m’indarà in
America
A ciapà sich franch al dé
Sì Sì che vegneria
Ma no l’è come Milàn
Che per indà in America
L’è tropo de lontan
Partire è sempre una
cosa brutta se non è per libera scelta e allora la rabbia esplode, Il
brano raccolto a Valcanale (BG) nel 1973 dal Foppolo, non riporta la musica,
c’è un testo analogo nel repertorio toscano e secondo me si tratta di
un canto anarchico della fine dell’800, entrato nel repertorio degli
emigranti con l’aggiunta della parte finale nel testo bergamasco, a
dimostrazione del fatto che spesso ci sono varianti locali o di tipo
estemporaneo che portano un testo d’autore ad una dimensione di
spontaneità popolare.. In quel periodo nacquero delle comuni anarchiche,
soprattutto in Brasile, fondate da idealisti e perseguitati politici,
costretti a fuggire dal regime di allora.
O vile di un’Italia,
mostrati gentile
E guarda i figli tuoi, non li scacciare
E noi andremo in Francia e nel Brasile
E non si curan più di ritornare
Verrà un dì che i
topi dovran partir
Per andar là Francia e Merica per mangià
Sposine sté qua con
buona volontà
E noi andremo in Francia e qualcun ci penserà
E noi andremo in
Francia e ‘l cürat ghè penserà
Ma anche se non c’è
la certezza di tornare, una cosa è certa: l’identità
Alpinisti che vengon
dalle alpi
Preparateci un’altra macchina
Noi siam tutti bergamaschi
Che nell’America vogliamo andar
Nell’America sono arrivati
L’americana ho già sposata
Non ti ricordi più di quell’italiana
E dell’amore che ti portò
Maledetto
quell’albero fiorito
Era segno di primavera
Addio bella ti lascio sola
E sola sola a sospirar
Addio bella ti lascio sola e sola sola a sospirar
C’è anche chi vede l’emigrazione come l’opportunità di cambiare
menage, o come alternativa alle patrie galere, questa potrebbe essere la
versione più recente della donna lombarda rivisitata da qualche girovago
cantautore che vendeva fogli volanti:
Mio marito ha tremila
lire
guarderia se li potrò rapire
guarderia se li potrò rapire
per poi fuggire in America con te
Farem fare una buona
minestrina
Metteremo il veleno potente
Taglieremo la testa ad un serpente
E con la carne la misero a bollir
E la carne che stava per bollire
La minestra fu pronte in un lampo
Viene a casa il marito dal campo
Le disse:” è pronto? voglio cenar”
Cena pure mio caro
marito
Cena te e la tua figlia Giannina
Gli rispose la cara piccina
“ aspetta babbo ma prima di
cenar”
Io ho visto la mamma
far bollire
Una testa con forma rapita
E da l’occhio da me fu sparita
Dove l’ha messa la mamma non so
Entra in casa la barbera donna
Mangia mangia o brutto vecchione
Suo marito prese il bastone
E mentre ella aiuto gridò
Ragazzine che fate
l’amore
Guardate bene di prendere merito
Voialtre spose l’avete ben capito
Come Luisa badate di non far
I bergamaschi sono ovunque presenti nell’emigrazione, scherzosamente
Bortolo Belotti poeta e
letterato scrive questi versi: “ e dopo es riat fò ‘l Colombo… con
zét del Portogal e de la Spagna, ai ghè curicc incontra a domandaga:
“come ala sö gliò ‘nval d’Imagna?”. Con questa canzone siamo in
Inghilterra:
Il bastimento parte
Parte per l’Inghilterra
Siam per mare siam per terra
In Inghilterra vogliamo andar
Quel che ti raccomando
quel
tenero bambino
Di tenerlo a te vicino
E non lasciarlo dimenticar
Addio padri e madri
Sorelle e fratelli
Un saluto a tutti quelli
A tutti quelli che mi vuol ben
Un saluto a tutti quelli
A tutti quelli che mi vuol ben
Con l’emigrazione si
accentua il fenomeno della “ lingera”, non sempre si pensa solo a
tornare a casa con il gruzzoletto per comprare il pezzo di terra, infin
dei conti siamo giovani e non c’è solo il lavoro e poi io qui sto bene:
Se la me mamma domanda
di me
Me so che ‘n Fransa
A biv ol café
A biv ol café
Con dét l’anizù
Me so che ‘n Fransa sensa passiù
Sensa passiù
E sensa penser
Semper a s-cète e mai tö moér
Il fenomeno della
lingera è frutto della miseria, del disadattamento, quasi una goliardia
della manovalanza e la scarsità di denaro fa il resto:
Ai dis che i minatori
son lingeri
Chi porta i braghe larghe e i stivaloni
E apéna t’han forà la galeria
Ai pianta pich e puf e po’ i va via
Contadino non voglio
far
Polenta e patate mi tocca mangiar
E invece il minator
E ‘l mangia e bev come un signor
Interessante in questa canzone l’uso gergale dei termini. Tutte le
categorie vaganti un tempo usavano un gergo tutto loro, per non frasi
capire e come carta d’identità parlata per riconoscimento, in questa
troviamo la parola puf, che appartiene al gaì, gergo dei pastori, e
significa: debito. Il lingera spesso è uno che alla fine non paga; a
volte si “piantava il puf” per vendetta contro un affitta camere
scortese o disonesto , una volta riscossa l’ultima paga si lasciavano i
quattro stracci e la valigia in stanza e si spariva senza saldare il
conto: questo è il puf, e questi i pufadur.
Per la lingera tutte
le scuse per non lavorare sono buone mi va bene anche la neve:
intat chè
‘l fioca
a sta manera
e la lingera
e la lingera
intat chè
‘l fioca
a ‘sta
manera
e la lingera
trionferà
E non si
emigra solo per fame ,indigenza, motivi politici, c’è anche chi è più
“sportivo”: e chi più della lingera?
La compagnia
del fil dè fer
La compagnia
del fil dè fer
L’è
‘ndacia ‘ Fransa
L’è
‘ndacia ‘n Fransa a lavorar
L’è
‘ndacia ‘n Fransa a lavorar
Per la Gigiòta
E la Gigiota
la gà ‘l pipì
E la Gigiota
la gà ‘l pipì
E la Gigiota
la gà ‘l pipì
Per la
palanca
Il lingera
però può bidonare all’estero, ma quelli del tuo paese non li freghi,
quelli ti pesano:
‘L vé a cà
i nostri francesi
borobon
con tanto di
scarpetine
ai gi porta
tri festine
i è pio
cosa de fa solà
‘L vé a cà
i nostri francesi
con tanto di
gravata
borobon
ai
g’ha sota chi che rampa
e
la gravata de rimirà
‘’L
vé a cà i nostri francesi
con
tanto di orologio
borobon
si
‘nghè guarda nel portafoglio
i
g’ha det gnà u quatrì
‘L
vé a cà i nostri francesi
con
tanto di braghe larghe
borobon
ai sömea
tate bisache
' mpienide
dè patos
‘L vé a cà
i nostri francesi
con tanto di
cadena
borobon
l’è sa
l’ura dè fa sena
e la cadena
dè remirà
Nell’emigrazione
bergamasca e bresciana è fortissima la presenza di bergamaschi e
bresciani nelle miniere o nei lavori di traforo e galleria delle Alpi,
questo sia perché c’era un esubero di mano d’opera, sia perché in
queste due province c’era già una tradizione della miniera per la
presenza di minerali sfruttati già nell’antichità e quindi operai già
esperti. La patrona protettrice dei minatori è Santa Barbara e questa è
una delle tante versioni dell’inno dei minatori.
Anche mio
padre sempre me lo diceva
Di stare
lontano de la miniera
Ma io
testardo ci sono sempre andato
Finché di
una mina mi ha rovinato
Finché una
mina di quella galleria
Ha rovinato
la vita mia
Non c’è né
medici e nemmeno professori
Che fa
guarire quei giovani minatori
o Santa
Barbara , o Santa Barberina
dei
minatori sei la Regina
La vita in
miniera è durissima, con situazioni ancora più dure rispetto ai secoli
precedenti, quando il minerale veniva cavato stagionalmente , e c’era
quindi la possibilità di scegliere i momenti migliori anche dal punto di
vista climatico e ambientale.
Il
traforo delle alpi doveva esser fatto rispettando dei tempi, e quindi si
procedeva a turni continuati estenuanti, inoltre la situazione igienica e sanitaria nei trafori era disastrosa, basti pensare
alle patologie causate da un verme presente nel terreno, nelle
rocce e nell’acqua nelle gallerie del traforo del S. Gottardo che furono
più deleterie degli incidenti stessi.
Sulla
musica della canzone che segue, e modificando alcune parole, durante il
primo conflitto mondiale nacque un canzone famosa, ma dall’ultima strofa
si può affermare che sia nata prima della guerra e che appartenga al
repertorio della miniera.
Eravamo in
ventinove
Solo in
sette siamo tornà
E gli altri
ventidue
Sotto i
colpi sono restà
Farem fare
un cimitero
Quattrocento
metri quadrà
Per
sotterare quei minatori (bis)
Che sotto i
colpi sono restà
E le povere
vedovelle
Vanno in
chiesa per pregar
Per la
perdita del marito (bis)
Trentamila
le g’avrà ciapà
Maledetto
sia ‘l Gotardo
L’ingegner
che ‘llà disegnà
Per quei
poveri minatori (bis)
Che sotto i
colpi sono restà
La morte in
miniera è sempre in agguato e a pagare sono quelli costretti ad andare
lontano per cercare lavoro
Uscii
dall’avanzamento allegramente
Contento di
aver fatto il mio dover
Ma la
disgrazia era ormai decisa
Già prima
di sortir di galleria
Avanti
avanti, quando il destino fu
Un grande
scoppio fece i blocchi cascan giù
Avanti
avanti dove il destino c’è
Girando
intorno ai blocchi, si vedon mani e piè
Subito un
telegramma al direttore
E mentre
sull’imbocco sta il dottore
Due morti ed
un ferito il treno viene
Decisi di
portarli all’ospitale
Anche il
ferito sul treno messo su
Al fischio
di partenza
Viver non
seppe più
Due di
quelli erano bresciani
Cugini sulla
leva dei vent’anni
Sangue bresciano, ridotto sei così
Nella tua
Brescia nascere, all’estero morir.
La
lontananza dalla famiglia crea situazioni di disagio fisico, psicologico e
molto spesso disperazione:
Cara moglie stasera ti scrivo
Che mi trovo
ai confin della Francia
Anche
quest’anno c’è poca speransa
di poterti
mandà dei dané
la cucina
l’è molto assai cara
e di paga si
piglia assi poco
e i
bresciani se ne vanno al galòpo
questa vita
la posso più far
cara moglie
di nuovo ti scrivo
di non darla
ne a’ preti né a’ frati
di darla
pure ai più disperati
che nel
mondo la pace non han
(bis)
Nel periodo
tra le due guerre oltre alla forte emigrazione all’estero, soprattutto
in Francia, ci fu anche una forte immigrazione interna in modo particolare
verso Milano e Torino .Oltre ai lavori di tipo stagionale, come il taglio
dei boschi, il mondariso, la mietitura, la fienagione, si cominciò ad
emigrare con la famiglia, o a squadre di muratori, fenomeno che si accentuò
nel dopoguerra e che continua ancora anche se con modalità diverse.
Questa canzone modulata su una musica precedente l’ho sentita cantare
ancora negli anni settanta nei cantieri a Milano
L’è riat
i magücc a Milà
Braghe rote
e ‘l sidel in di mà
Per portaga
la molta ai maister
Iè töcc
comunisti e i següta a cantà
Il fenomeno
dell’emigrazione dopo la seconda guerra è ripreso in modo massiccio per
la nostra provincia soprattutto verso la Svizzera ,dove le condizioni di
trattamento non erano certo delle migliori. Sempre sulla musica della
precedente questa canzone che potremmo dire tra le ultime
dell’emigrazione in Svizzera, questo denota anche come i canti vengono
anche composti in maniera estemporanea su musiche preesistenti a mo’ di
stornelli.
In Isvissera
bene si stà
Italiani ce
n’è in quantità
Lavoriamo
però siamo stanchi
Per prender
franchi bisogna sgobbar
Da più mesi
che noi siamo qua
Che mangiamo
patate ogni dì
Nelle nostre
stanzette di sera
Chi sogna
chi spera alla casa tornar
In Isvissera
bene si stà
delle
donne ce n’è in quantità
ci son donne
con certe mutande
caramba son
grande che fanno incantar
Sempre più
soffia il vento
Che disagi
ogni dì
Questa vita
è un tormento
Che si
chiama elle di
Ma in
Isvissera bene si stà
ma il
pensiero è sempre lontan
e pensando a
la mia’ bella
che sempre
aspetta il suo amore lontan
A Paierna
siamo arrivà
Ma di Briga
dobbiamo passar
C’è il
doganiere con belle maniere
Chè ‘l fa
la dogana ai povr’italià
O Italia
giardino di fior
Sotto il
cielo turchino d’ognor
Fa
risplendere il sol sulla terra
Non far più
la guerra ,la pace e l’amor
Fa
risplendere il sol sulla terra
Non far più
la guerra la pace e l’amor
Spesso, data
la giovane età dell’emigrante, si entra in conflitto con i locali per
questioni di femmine. Altro esempio di canto improvvisato su un motivo
comune:
Il prete di
Trecate
L’ha
predicat in cesa
Se i
bergamasch i frega
I frega la
roba nosta
E una delle più belle
Gli ha dato
la risposta:
se i
bergamasch i frega
l’è töta
riga nosta
Nella
canzone dell’emigrazione è entrata anche questa, pur con leggere
varianti locali che si sono formate nel tempo, d’autore ticinese,
Vittorio Castelnuovo,risalente agli anni cinquanta, senz’altro tra le
ultime in ordine cronologico, ma di fatto è entrata nel repertorio
tradizionale. In maniera analoga ad un’altra canzone d’autore entrata
ormai nel repertorio tradizionale , anche se rifiutata dai puristi:
“Cimitero di rose”.
Noi siam
partiti l’altra sera al chiar della luna
Noi siam
partiti per cercare un po’ di fortuna
Ma nel dolor
tutto dovrò lasciare
questo
l’è’l destin, questo l’è ‘l destin , per chi vuol emigrare
Ma nel dolor
tutto dovrò lasciare
questo
l’è ‘l destin, questo l’è ‘l destin, per chi vuol emigrare
Dimmi o’
bella dalle labbra color di rosa
Se
tu volessi acconsentir, di te farei la sposa
Io vorrei
far di te la mia sposa,
non mai più
lontan, non mai più lontan dal paesello mio
io vorrei
far di un piccol nido mio
non mai più
lontan, non mai più lontan,
dal paesello mio
Lontano
quanti giorni tristi abbiam passato
Pensando
sempre a quelli che a casa abbiam lasciato
ma nel mio
cuor c’è tanta nostalgia
dei miei
monti e val, dei miei monti e val, della vallata mia
Ma nel mio
cuor c’è tanta nostalgia
dei
miei monti e val,Dei miei monti e val, della vallata mia
Noi siam
tornati nel bel maggio a maggio pieno
Quando laggiù
nei nostri prati si taglia il fieno
E con gli
amici che a cantar ci aspetta
siam
tornati alfin, siam tornati alfin, a questa mia casetta
E con gli
amici che a cantar ci aspetta
siam
tornati alfin, siam tornati alfin, a questa mia casetta.
Questi, e
chissà quanti altri , sono i canti giunti fino a noi attraverso quelli
che sono rientrati, sarebbe interessante conoscere quelli che sono ancora
ricordati dagli emigranti che sono rimasti all’estero e con l’aiuto di
internet non dovrebbe essere così difficile. Penso agli emigranti rimasti
nelle Americhe, ma anche a quelli meno ricordati dell’Australia.
Personalmente ho avuto modo di registrare persone anziane che ogni tanto
rientrano dalla Francia o dalla Svizzera, ormai con cittadinanza del paese
ospitante, ma sempre orgogliosamente bergamaschi, che hanno conservato un
repertorio molto antico e molto puro: proviamo ad immaginare il repertorio
conservato dai figli o dai nipoti di quelli che sono usciti più di cento
anni fa.
A questo punto a molti verrà spontaneo un quesito:
attualmente si compone ancora qualche cosa sul tema emigrazione?
Secondo me la
risposta è affermativa, perché certe forme musicali nuove, come ad
esempio il rep, descrivono con attualità la vita quotidiana di certe
classi di lavoratori che potremmo includere nelle nuove forme di
“emigrazione” e
soprattutto usando la lingua locale. Ci sono fortunatamente molti
cantautori che hanno ripreso a comporre e scrivere testi in
“dialetto”,per evitare di dimenticarne qualcuno, perché sono tanti e
non ho il piacere di conoscerli tutti, non citerò nomi, riporto però
alcuni pezzi di un
compositore bergamasco che ben descrivono la vita del muratore che si reca
ogni giorno a Milano:
Me me ciame Tone
Tone dol Cantù
G’ho do hpale
Do Macihte
e öna forsa dè leù…
L’è hic ure dè matina
Go mia oia dè leà hö
E me mader chè la usa
Halta fò macarù
Ol me hocio zo de bah
La schihèta, hota ‘l brah
Gh’è la hquadra che la a
Hö stradù chè ‘l va a Milà
La mahèta e la cahöla
L’era mei che ‘nda a hcöla
Fo ‘l
mehter de ‘l moradur
Ciape i holcc come u dutur...
Bibliografia:
I testi provengono dal CD “ Il Bastimento Parte”
, canti dell’emigrazione bergamasca
1996, dal disco della Regione Lombardia, documenti della cultura
polare : “I minatori della Valtrompia” famiglia Bregoli di Pezzaze, e
da registrazioni fatte sul campo dell’archivio Piergiorgio Mazzocchi.
Ultimo brano di Peter
Barcella.
|