I CONFINANTI
Luogo: Bergamo, Costa Serina, Zogno, Valtesse, Fontanella, Calusco D'Adda...
Analogie: In tutta la Padania e nel continente Europeo
Narratore: Tratta dal libro "Leggende Bergamasche" di Carlo Traini


Ernst Ferdinand Oehme "Cimitero nella Neve" 1833


Altrettanto strana e superstiziosa di quella del Folletto era la credenza dei “confinanti”. Si chiamavano così coloro che, essendo morti in stato di impenitenza finale non potevano – si diceva – rimanere sepolti in terra benedetta del cimitero. Perciò si mostravano, nottetempo, vicini al cancello d’entrata; oppure, ogni mattina, il loro corpo si trovava allo scoperto, sopra la fossa. In tal caso bisognava che alcuni coraggiosi, accompagnati da un sacerdote in cotta e stola, altrettanto coraggioso e capace degli scongiuri più energici, a notte alta, entrassero nel cimitero, muniti di un sacco nel quale il corpo insepolto entrava da sé per essere trasportato a spalla di quegli uomini nel luogo più selvaggio, dove non giungesse il suono delle campane.

Colà deposto, il reprobo precipitava di dirupo in dirupo, urlando spaventosamente, tutto avvolto in fiamme. Dicono a Costa di Serina che questi “confinanti” uscivano dalla tomba emettendo lamenti e urla infernali. Un tale, soprannominato Sorem s’incaricava di raccogliere le salme dentro una “gabbia” (una gerla dalle stecche molto larghe) per portarli alla Laca d’Bèch, una stretta voragine del sito chiamato Brughiera, dove precipitava a capofitto.

Uno di questi dannati aveva preso la pessima abitudine di passeggiare, sotto forma di cane fulvo color di brace, dal viso umano, per le vie d’una frazione di Zogno, riempiendole di latrati spaventosi. Immaginarsi se, ad una certa ora, la gente aveva voglia di uscire! Tutti si tappavano in casa, chiudendo porte e finestre per non vedere e per non sentire. Un giovanotto di Spino, abbastanza coraggioso e tutt’altro che facile alle invenzioni, raccontava che, recandosi nottetempo a Villa d’Almè per vedervi alcune pezze di tesa tessute in casa, ebbe la mala ventura d’incontrarsi con quel cane. Ne ebbe tale spavento che, nonostante un copioso salasso – rimedio non insolito a quei tempi – ammalò seriamente e mancò poco non andasse ad patres. Visse invece, fino a 86 anni, abbastanza perché io stesso lo udissi, più di una volta, raccontare il fatto. Più storico di così!...

Che ci fossero dei defunti renitenti alla sepoltura sta scritto anche nelle Effemeridi del P. Donato Calvi.

Nel 1586, essendo stato sepolto nel Monastero dei Celestini in Valtesse, presso Bergamo, un tal Giacomo Bagis, abitante nel vicino Borgo Santa Caterina, furono tanti “i rumori strepidi et fracassi” che si udivano, nottetempo, in detto convento e attigua chiesa, che i monaci vennero nella risoluzione di collare quel… disturbatore in un luogo non sacro; dopo di che, ogni cosa tornò come prima. Nel 1609, una donna sepolta, non è detto in qual luogo della Parrocchia di Fontanella, più d’una volta, “fu trovata con la mano destra fuori dalla sepoltura, fra la lapide e il coperchio”. Attribuendosi ciò all’aver essa percosso la propria madre, questa che era ancora in vita, fu consigliata di percuotere con una verga la mano della figlia, e non fu più veduta riaffiorare.

Anche un tale di Calusco, annegatosi dell’Adda nel 1594 e sepolto presso i muri della chiesa parrocchiale, fu trovato con la gamba destra fuori terra, né vi si riusciva a fargliela tener sotto: fu divorata dai cani. Si sapeva in paese che quel disgraziato aveva osato colpire suo padre brutalmente a calci. Il Calvi si affretta a dire che, nel 1675, c’erano ancora dei vecchi ch’erano stati testimoni del fatto. In contrasto con le precedenti è la leggenda del Nadalì, rievocata come segue da Sereno Locatelli – Milesi. Essa costituisce, mi sembra, un esempio di ingenua psicologia popolare che, soggiogata dalla bellezza del pentimento e della espiazione, è capace di sentimenti di simpatia e di esaltazione tali da fare, di un impiccato e un reprobo come il Nadalì, un eletto, degno non solo di una fossa benedetta e infiorata, ma della beatitudine celeste.

Racconta Locatelli – Milesi:

“Il Nadalì è stato un famoso (tanto famoso che di esso neppure si ricorda il cognome) delinquente dei primi dell’800, reo convinto di numerose grassazioni e di parecchi omicidi, e come tale condannato alla pena del capestro.

“Impiccato sovra lo spalto della Fara, prima di passare il collo al laccio fatale ottenne di concionare gli interventi allo… spettacolo: e rivolgendosi specialmente alle madri di famiglia, raccomandò ad esse di vigilare sull’educazione dei propri figli, perché lui, povero Nadalì, non si sarebbe trovato in quelle condizioni se la madre sua non lo avesse abbandonato a se stesso, ai pericoli della strada, alle insidie delle cattive compagnie.

“Sotterrato nel cimitero di Valtesse, fuori dal sacro recinto - come era costume del tempo - la sua fossa fu, per molto tempo, meta costante del popolino, che recava tributo costante di fiori, di ceri e di preci, ritenendo per fermo che il Nadalì fosse diventato poco meno di un santo. “Molti anni dopo, quando, per allargare il Cimitero, si dovette abbattere la cinta e provvedere al nuovo scavo, non si trovò più traccia della salma: il popolino gridò al miracolo: il Nadalì, dopo aver ottenuto la grazia di entrare in paradiso, aveva ottenuto anche quella di entrare nel Cimitero…”

 

Tutti i diritti sono riservati la riproduzione è vietata eccetto su autorizzazione. Realizzato da Trabucchi Mirko