IL FLAUTO DELLA VALLE IMAGNA
di Piergiorgio Mazzocchi
La ricerca e
la riscoperta delle radici della nostra cultura alpino-padana, negli
ultimi decenni hanno portato alla rivalutazione e alla riproposta in campo
musicale delle nostre musiche tradizionali, dei canti e degli strumenti
usati nel passato e, in alcune aree, ancora presenti. Basti pensare al
piffero delle quattro province che, oltre al fatto di non essere mai
caduto in disuso, sta raccogliendo numerosi adepti. Ma mentre
l’attenzione dei ricercatori è sempre stata orientata verso il mondo
degli aerofoni “nobili” vale a dire delle cornamuse ( baghèt, musa,
piva emiliana, o comunque verso strumenti ad ancia doppia), con buoni
risultati nel riportare in auge strumenti che rischiavano l’estinzione,
ben poco è stato ritrovato in Padania circa strumenti di origine ancora
più umile. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che trattandosi di
strumenti poveri, erano realizzati con materiali destinati ad andare
incontro ad un facile deperimento. Si tratta spesso di strumenti costruiti
dallo stesso suonatore: flauti di canna , di sambuco, di nocciolo, di
corteccia, di osso o di corno… materiali facilmente reperibili e
sostituibili non appena lo strumento non rispondeva più alle esigenze del
suonatore.
Vi era,
tuttavia, anche chi si dedicava alla costruzione di questi oggetti in
maniera professionale, ed è
proprio il caso del flauto della Valle Imagna.
Questa piccola valle della provincia di Bergamo, come spesso accade alle
zone con terreni poveri, ha
sempre affiancato l’attività agricola con attività integrative, per
occupare i tempi morti del lavoro agricolo di montagna. Oltre
all’emigrazione, un tempo stagionale (legna, carbone, vendita di
prodotti e manufatti locali…) vi erano anche delle attività come la
lavorazione del ferro, grazie anche alla presenza d’acqua sfruttata come
forza motrice, e la lavorazione del legno con il tornio. Ancora oggi in
valle Imagna la torneria occupa una parte importante nell’economia
vallare , mentre l’attività dei magli si è molto ridotta.
C’erano
più famiglie che si dedicavano alla costruzione di flauti e trombette, ma
l’ultima è stata quella di Fortunato Angiolini di Brumano.
Sìoi originali a tre fori.
Tre siglòcc originali costruiti da Fortunato Angiolini,
( sette fori + uno), il quarto in legno chiaro è una ricostruzione di Bani
Questo flauto dalle origini molto antiche era suonato dagli ultimi virtuosi
per eseguire suonate relativamente semplici, canzoni popolari, danze e
probabilmente usato con altri strumenti come l’organetto diatonico,
fisarmonica o come è dato vedere nell’affresco di Cornalita Sec. XIV (S.
Giovanni Bianco, BG), già citato su queste pagine due settimane fa, insieme
ad una cornamusa. Gli ultimi flauti erano prodotti ancora in grande quantità,
fino alla metà degli anni sessanta del XX sec. circa, ma non era molto
curata la qualità, soprattutto dei legni( acero, nocciolo), in quanto si
doveva rimanere in un certo prezzo. In una annata particolarmente abbondante
giunsero a produrne circa cinquantamila Fortuno e due suoi fratelli e
duemila di questi furono spediti negli Stati Uniti. Purtroppo nonostante ciò
è quasi impossibile trovarne
ancora.
Stabilire
l’intonazione di questi strumenti non è facile, perché spesso variano in lunghezza, si può approssimare un
Sol o un La, con una diteggiatura simile a quella del “baghèt”, ma come
già detto l’ultima produzione era destinata a “giocattolo” più che a
strumento vero e proprio. Tuttavia da ricostruzioni fatte da Ettore Losini (Bani),
pifferaio piacentino, si sono ottenuti dei flauti in legno di bosso , di una
buona potenza, tanto da poter
suonare insieme ad una piva o ad una fisarmonica. Infatti l’Angiolini
stesso non escludeva che in passato ci potesse essere una produzione con
legni pregiati che potevano dare flauti di tipo “professionale” e che
necessitavano di una maggiore attenzione nella loro preparazione, ma con
ottimi risultati.
La famiglia
Angiolini ,oltre ad essere l’ultima a produrre i “siglocc” era anche
la depositaria di un “segreto”: qualche antenato aveva scoperto che per
far suonare meglio i flauti si doveva correggere il condotto dell’aria dal
becco (dalle labbra del suonatore) alla finestra del flauto, a questo scopo
avevano inventato un ferro,lo “scopelì” per compiere questa operazione
che garantiva un sicuro effetto. Molti costruttori portavano a questa
famiglia i flauti semilavorati per questa fase finale e
per farli quindi suonare. Può darsi che questo accorgimento fosse
conosciuto anche da altri (recentemente ho avuto modo di constatarlo su un
“siglot” appartenuto ad un suonatore di “baghèt” in valle Seriana),
ma sta di fatto che questa conoscenza, ultimamente, era portata avanti solo
dal “Fortuno” il quale resosi conto che ormai era un segreto che non
poteva più compromettere il suo “mercato” di buon grado ce lo svelò.
Interessante
la posizione delle dita che ci ha mostrato Angelo Manzoni nel 1985,
campanaro che un tempo suonava il “siglòt”,( anche se privo di nozioni
di teoria musicale”, la mano destra sta sulle note alte (attualmente si
usa la sinistra) copre i primi quattro fori anteriori usando anche il
mignolo, con la sinistra gli altri tre restanti. Anche in questo caso ci
viene in aiuto la somma arte della Pittura: molto spesso si vedono, nei
quadri antichi, suonatori di piva o di flauto che usano
queste posizioni delle dita sullo strumento.
Oltre ai
flauti si producevano anche delle trombette simili a quelle ancora oggi
usate durante il Carnevale e che davano lo stesso suono, non si tratta
tuttavia di uno strumento, ma di giocattoli per bambini. Erano costituite di
due parti: la “bochèta” e il “fond”, all’interno si collocava una
linguetta di ottone simile a quella del clarinetto, fissata da un bastoncino
incavato per il passaggio dell’aria chi amato “abbiöl”. Sia le
trombette, sia i flauti erano sottoposti a bollitura in acqua e anilina,
questo per essere sicuri di spedire anche lontano un prodotto che era
garantito da eventuali crepe che potevano formarsi nel legno, e anche per
motivo estetico.
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